I due Motobu
Articolo a cura di Manuel Vignola
Choki Motobu è un personaggio che solo negli ultimi anni ha iniziato ad essere conosciuto nel mondo occidentale in modo più approfondito, nonostante sia una delle pietre miliari nella storia del karate. Lui e la sua famiglia, soprattutto il suo fratello maggiore, Choyu, hanno avuto un impatto molto rilevante nell’ambiente del karate di inizio ‘900. La famiglia Motobu era la più in vista dell’isola dopo la famiglia reale con cui era imparentata, motivo per cui i suoi rampolli potevano beneficiare in fatto di istruzione (sia accademica, sia marziale) dei migliori insegnanti del Regno delle Ryukyu. Con il tempo, i due fratelli Choyu e Choki avrebbero raggiunto la notorietà in ambito marziale: Choyu ad Okinawa era il rispettato ispiratore ed insegnante anziano del Ryukyu Tode Kenkyukai del 1923, l’associazione di ricerca che riuniva i maggiori Maestri presenti sull’isola in quel periodo (Miyagi, Mabuni, Kiyan ecc), ove istruiva e scambiava pareri con gli altri insegnanti sia sull’arte marziale che aveva ereditato dalla sua famiglia come primogenito, il Motobu Udundi (qualche concetto, non la insegnò mai ufficialmente se non a Seikichi Uehara per tramandarla ai posteri), sia sul karate più propriamente detto, che aveva studiato sin dalla tenera età con i suoi due fratelli sotto diversi Maestri, tra cui spiccavano Sokon Matsumura e Anko Itosu. A Choki invece, salvo le lezioni che gli diede il fratello maggiore in età più avanzata e le “spiate” mentre il fratello si allenava, venne precluso l’insegnamento dell’arte di famiglia come tradizione, tuttavia beneficiò dell’istruzione nel karate che veniva insegnata in casa sua da rinomati Maestri del periodo (ad esempio studiò sotto Anko Itosu per ben otto anni) e, col tempo, amalgamò le conoscenze dei vari Maestri con l’esperienza pratica acquisita reagendo alle sfide nel quartiere di Tsuji (Naha); raggiunse la notorietà quando in Giappone, nel 1922, affrontò e sconfisse un lottatore straniero molto più giovane di lui in un incontro pubblico a Kyoto, e usò la fama acquisita per aprire una scuola, il Daidokan, che tuttavia rimase sempre “di nicchia” essendo il suo metodo troppo personalizzato ed okinawense, scuola che fu surclassata dal karate di Funakoshi che si stava diffondendo enormemente secondo le linee fissate dal Dai Nippon Butokukai, per adattarlo alla mentalità giapponese e renderlo degno di guadagnarsi un posto tra le arti marziali del “nuovo Giappone”. I due fratelli trasmisero le proprie conoscenze e diedero origine a due scuole separate, riunitesi solo di recente quando Uehara passò il titolo di “erede” del Motobu Udundi al figlio di Choki, Chosei Motobu, tuttavia sebbene apparentemente diverse queste scuole hanno molti punti in comune.
Il Motobu Udundi rappresenta un raffinato sistema famigliare di combattimento che prevede sia una grande quantità di armi tradizionali, sia l’aspetto del combattimento a mani nude (la tecnica di palazzo, sviluppatasi nelle famiglie nobili dell’isola sin dai tempi antichi), in un modo diverso da quello che comunemente viene inteso come “karate”, apparentemente rassomiglia per dare un’idea all’arte giapponese del Daito-ryu Aikijujutsu, con una forte enfasi sugli spostamenti del corpo per evitare gli attacchi (taisabaki), e sul tuidi, le tecniche di intrappolamento e manipolazione articolare; inoltre, pone grande enfasi sul combattimento più che sulle forme, considerate l’apice dell’arte con il “Anji no Mai”, la “danza marziale”, una sorta di “kata” eseguito come una danza tipica delle Ryukyu, in cui sono dissimulate le tecniche di tuidi e gli spostamenti, un concetto comunemente associato anche al Tai Chi (bisogna specificare che il Anji no mai attuale non è l’originale di Motobu Choyu sensei, bensì un rifacimento di Uehara Seikichi sensei). Quest’arte marziale Choyu la tenne sempre segreta in ossequio alla tradizione famigliare, tant’è che nelle esibizioni pubbliche e nelle lezioni al Kenkyukai, pur inserendovi qualche concetto, insegnava il karate che aveva appreso secondo lo schema classico (es. nelle esibizioni il kata che dimostrava di norma era il Kusanku Dai, noto nella famiglia Motobu con il nome Ufukun).
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Choki Motobu invece utilizzava un metodo un po' “anticonformista” rispetto all’insegnamento del periodo: studiò con diversi Maestri, ma la sua caratteristica peculiare era quella di testare sul campo i concetti che imparava, partecipando a diversi kakedameshi clandestini, ed eliminando e modificando quanto aveva appreso nel modo che riteneva più produttivo. Il suo metodo di insegnamento era molto personalizzato, cosa che contribuì senza dubbio alla limitata espansione della sua scuola, e si rifiutò di adeguarlo alle “spinte” del Giappone moderno. Tuttavia aveva molto in comune con i concetti dell’arte marziale famigliare del fratello maggiore, che pure non aveva potuto studiare in modo compiuto. Sebbene si concentrasse sugli esercizi di rafforzamento del corpo come era prassi nel mondo del karate okinawense, i kata per lui costituivano, come per il Motobu Udundi, l’apice dell’arte e non l’inizio come era opinione comune, per cui ne approfondì pochi (soprattutto il Naihanchi che riteneva l’essenza del karate) dando grande risalto agli esercizi applicativi a coppie (creò un set di dodici di questi esercizi che costituiscono una sorta di compendio di tecniche applicative tratte perlopiù dal suo kata preferito), dimostrando così un ulteriore punto di contatto tra le due arti, cioè una maggiore enfasi sulle applicazioni nel kumite rispetto alle forme.
Altri punti in comune tra le due arti sono l’enfasi sui principi del meotode/mitodi (cioè mani marito e moglie, ossia far lavorare ambo le mani all’unisono), e la poca attenzione al principio dell’hikite classico, ossia ritirare il braccio al fianco; il poco utilizzo di posizioni o tecniche di difesa standardizzate; la preferenza di colpire con il braccio o la gamba più vicini al bersaglio; l’uso sapiente del movimento del corpo per schivare ed evadere dagli attacchi avversari. Ambedue queste arti costituiscono un “tesoro” che ci arriva direttamente dal vecchio Regno delle Ryukyu, l’una un’arte famigliare rimasta invariata nel tempo e praticata dalla più alta nobiltà del vecchio regno, l’altra una disciplina, testata sul campo, che ci tramanda una serie di principi testati in combattimenti di strada, e ci dà delle importanti linee guida per interpretare i kata tradizionali.
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